IO E GLI ANIMALI DELLO STAGNO

IO E GLI ANIMALI DELLO STAGNO

Io e gli animali dello stagno.
Sono cresciuto in Sabina, una località del Centro Italia collinosa piena di fossati e torrentelli, dove si è sviluppata nel tempo una particolare capacità di produrre fieno di ottima qualità destinato all'allevamento degli  animali. Da adolescente mi divertivo a guardare gli uomini che "correggevano" i piccoli corsi d'acqua per renderla potabile e per irrigare il terreno nelle estati a rischio siccità. Dopo quelle modifiche dei tracciati naturali di deflusso delle acque piovane e delle piccole sorgenti naturali, tutt'intorno la terra diventava fertilissima ed era destinata alle coltivazioni più delicate, ortaggi e "erba medica" che disidratata diventava un ottimo fieno per puledri, mucche e pecore che allattavano. Una raffinatezza, potrei dire, del saper fare contadino che a me piaceva molto ma, gli anfratti vicino ai piccoli stagni naturali, le "pozze" circondate da erba tenera, ospitavano rane, serpentelli, insetti, tartarughe e pesci, milioni di creature che vi avevano trovato rifugio. Per scavare canali di irrigazione, per deviare i piccoli ruscelli, per fare tutto questo si usavano "perticare" (aratri pesantissimi che scavavano a grande profondità) o la dinamite uccidendo, come nulla fosse tutti quegli animali. La cosa che mi sbalordiva allora era la naturalezza della cosa e, peggio ancora, che nessuno né parlava e io nel mio ego già smisurato, ero convinto di "pensare solo io" a quelle povere bestiole. Agli uomini non importava affatto di distruggerli, il loro scopo era dì rendere coltivabile e fertile il terreno, soprattutto nei punti rubati alla vegetazione spontanea. Verso i venti anni, ne ero convinto, solo io avevo quei pensieri che mi rattristavano come quando venivano uccisi agnelli per pasqua o conigli più disponibili a tutte le stagioni. Peggio ancora mi accadeva quando venivano a "caricare" un vitello, un maialino o un cavallino che avevi visto nascere e crescere e li vedevi improvvisamente brutti nell'aspetto, non sembravano più loro, rannicchiati o "sbarellati" su un cassone di camion per andare verso il macello. Ogni volta mi interrogavo sulla natura di noi esseri viventi e come gli umani pur dotati di intelletto, quindi di maggiori risorse, fossero per questione di sopravvivenza, gli animali più aggressivi, più violenti e più bestialmente affamati degli altri. Ancora più su con gli anni, leggevo che quei brutti pensieri di adolescente non erano solo miei ma di tantissimi altri attenti alla natura e alla specie umana. Oggi mi chiedo se i miei pensieri ne incontreranno tanti altri. Penso sempre più frequentemente che potrebbe essere possibile che noi stessi siamo dei "ranocchi" in una palude che chiamiamo grande città alle prese con qualcuno che sta usando la dinamite su di noi. Dopo le recenti vicissitudini mi sfiora, cerco di allontanare, ma ritorna sempre più nitida, la pessima idea che forse il Covid 19 potrebbe essere uno strumento per un'opera di bonifica, intrapresa per creare spazi di vita, coltivazioni nuove, creare campi che saranno coltivati da creature appartenenti a una forma di vita superiore. Questo virus ci ha moltiplicato per mille la nostra già pesante fragilità, per colpa nostra siamo come rane in uno stagno che sta per essere buttato in aria, devastato. So che sono soltanto fantasie di un cattivo visionario, ma chiediamoci cosa sarebbe successo se le rane, di cui dicevo sopra, si fossero accorte che il loro stagno stava per essere prosciugato. Si sarebbero messe a saltare qua e là cercando la causa del disastro che intuivano imminente? Il loro OMS ci avrebbe azzeccato? Ne avrebbero discusso tra di loro? La paura ne avrebbe segregate molte? Credo che la maggior parte delle rane avrebbe sostenuto che l'avvicinarsi del pericolo era una stupidaggine, che lo stagno c'era sempre stato, e che avrebbe continuato a rimanere tale e quale in eterno. Forse quelle dotate di maggiore buon senso avrebbero chiesto una prova di quella tragedia incombente ma, ammettiamo solo che una più intelligente delle altre fosse riuscita a mostrare loro un uomo con un tubo di dinamite in mano, e un fiammifero acceso. Tutte avrebbero compreso che cos'è l'uomo, e che cos'è la dinamite. Sicuramente in questi cento giorni di segregazione i miei pensieri sono molto più fessi, mi spaventano e cado sovente in errori grossolani, ma la caducità degli umani somiglia a quella percepita da adolescente per gli animali dello stagno. La tristezza martellante che mi generava la "normalità" degli eventi di allora, è assai simile a quella di oggi sull'ineluttabilità e normalità della tragedia umana globale.