LA BRIANZA E I DANE'
La Brianza e i dané.
Spesso la sera, dopo un qualche indugio, uscivamo a passeggio nella nebbia. Fuori non s'incontrava una persona, soltanto nel cono di luce sporca dei lampioni qualche parvenza umana imbacuccata e frettolosa che caracollava verso casa fra lo sfrecciare dei Suv neri. Uscendo dai cinema a mezzanotte precisa filavano a letto, e li vedevo in faccia solo nell'attimo che sostavano dinanzi al portone per tirare fuori la chiave e aprire. Ci chiudevamo subito dentro. Non una finestra illuminata, a quell'ora tutti avevano sbarrato le imposte e dormivano.
Lì nei paraggi, vicino la chiesa di Arosio, c'erano un paio di bar con la televisione, il padrone sul podio della cassa con gli occhi vigili, perché tutti consumassero qualcosa, e la gente stava ammutolita a guardare. Qualche volta con Daniela ci entrammo, cercando di attaccare discorso con gli spettatori, ridendo alle incertezze del presentatore, il giovedì sera, ma la gente ci guardava appena, e un po' storto anzi, e una sera un tale borbottò: «Ma che cosa ci sarebbe da ridere? Sai la grana che si fa, quello, altro che ridere». Dicevano tutti la grana. La grana e poi i dané. La grana sarebbe quella che si prende, i dané quelli che si pagano, mi pare di aver capito.
«Ci vogliono tanti dané» dicevano appunto le donne la mattina al mercato paesano, che era un grande susseguirsi di camion con tende e ribalte, in mezzo alla piazza e via lungo le due strade. «Eh, sì, tanti dané.» E così dicendo sostavano in fila silenziosa, tutte inbellettate davanti ai cestoni della frutta, dove un meridionale nero e incazzoso pesava le arance e le buttava in un imbuto di carta gialla. «Tanti dané.» «La grana, la grana» diceva invece il salumiere. Lo diceva con gli occhi, e con gli occhi stimolava il commesso, piccoletto e nervoso, a fare presto, a fare tanta grana e subito. Sopra un paesaggio comasco di autore ignoto
Spesso la sera, dopo un qualche indugio, uscivamo a passeggio nella nebbia. Fuori non s'incontrava una persona, soltanto nel cono di luce sporca dei lampioni qualche parvenza umana imbacuccata e frettolosa che caracollava verso casa fra lo sfrecciare dei Suv neri. Uscendo dai cinema a mezzanotte precisa filavano a letto, e li vedevo in faccia solo nell'attimo che sostavano dinanzi al portone per tirare fuori la chiave e aprire. Ci chiudevamo subito dentro. Non una finestra illuminata, a quell'ora tutti avevano sbarrato le imposte e dormivano.
Lì nei paraggi, vicino la chiesa di Arosio, c'erano un paio di bar con la televisione, il padrone sul podio della cassa con gli occhi vigili, perché tutti consumassero qualcosa, e la gente stava ammutolita a guardare. Qualche volta con Daniela ci entrammo, cercando di attaccare discorso con gli spettatori, ridendo alle incertezze del presentatore, il giovedì sera, ma la gente ci guardava appena, e un po' storto anzi, e una sera un tale borbottò: «Ma che cosa ci sarebbe da ridere? Sai la grana che si fa, quello, altro che ridere». Dicevano tutti la grana. La grana e poi i dané. La grana sarebbe quella che si prende, i dané quelli che si pagano, mi pare di aver capito.
«Ci vogliono tanti dané» dicevano appunto le donne la mattina al mercato paesano, che era un grande susseguirsi di camion con tende e ribalte, in mezzo alla piazza e via lungo le due strade. «Eh, sì, tanti dané.» E così dicendo sostavano in fila silenziosa, tutte inbellettate davanti ai cestoni della frutta, dove un meridionale nero e incazzoso pesava le arance e le buttava in un imbuto di carta gialla. «Tanti dané.» «La grana, la grana» diceva invece il salumiere. Lo diceva con gli occhi, e con gli occhi stimolava il commesso, piccoletto e nervoso, a fare presto, a fare tanta grana e subito. Sopra un paesaggio comasco di autore ignoto