LA CONVERSAZIONE DIFFICILE E LA MESSA IN SCENA CHE CI SALVA DAGLI ALTRI
La conversazione e la messa in scenza che ci salva dagli altri.
In questo periodo, chi come me era solo in casa, è tornato all'uso del telefono. Addirittura mi è parsa una novità visto che non lo usavo da decenni, né per lavoro (poca fiducia nelle parole), né in privato dove la velocità del messaggi era preferibile. Il comunicare con la sola voce, aggiunto a tutti gli altri modi con o senza webcam, mi ha portato a rivedere il mio concetto di comunicazione, lo ha ampliato, lo ha "istruito" per necessità. Questo isolamento mi ha aggiornato, fatto capire bene, il mio rapporto assurdo con la conversazione, ma anche la sua preziosità. Un momento degno di nota della mia conversazione è nel lavoro dove ho sempre tenuto lontani l'egocentrismo, la promozione di me medesimo, la burla maschilista, gli scambi di bravura alla guida o a letto, che piace tanto ai maschietti modaioli e tutti uguali. Nelle aziende sanno trasformare le normali dialettiche lavorative in teatrini personali che somigliano tanto ai salotti televisivi. Una riunione "tecnica" divenuta all'improvviso un teatrino del narcisimo dove la "star" è di solito l'imprenditore che, approfittando della sua posizione di dominio, narra di gesta eroiche compiute nel weekend o altre circostanze simili, comunica se stesso a scapito delle esigenze lavorative, a caccia di una consacrazione personale di cui non può fare a meno (la moglie e i figli evitano per sopravvivere). Boicottare questi grandi momenti di vita aziendale è stata da sempre la mia specialità, riesco a produrre in un baleno il passaggio repentino di una riunione da salotto godereccio a trincea armata, è qui che da anni produco il numero massimo dei miei nemici. Un altro dei momenti "prestigiosi" della mia conversazione e del produrre nemici, è "discorrere" con una persona gentile che mi stima, ma con cui non sto affatto in confidenza. Un vero supplizio, mi sento dire cose che non interessano minimamente e non riesco a svincolarmi, una specie di "paralisi" della volontà mi impedisce di andarmene, di troncare, e sto zitto per non innescare altri argomenti, ma ogni tanto, per timore che l'interlocutore si accorga del mio disinteresse, dico una parola di approvazione e produco un ulteriore accanimento che prolunga la durata della gogna cerebrale. Alcune volte subisco un discorso o un racconto che nemmeno sento ed ecco che non avendo capito un tubo di quello che mi hanno detto, annuisco come un ebete. Nel tempo sono diventato bravissimo a far credere che ascolto e comprendo, ho acquisito una tale perfezione in questa passività, che azzecco osservazioni senza nemmeno aver compreso l'argomento che si sta trattando. Riesco a fare bella figura anche non volendo. Insomma se voglio dire la verità devo constatare che, in questo periodo di maggiore uso del telefono, mi è più chiaro di come i rapporti con i miei simili li ho sempre vissuti e vivo ancora faticosissimi. Comunicare con loro mi resta difficile a meno che non mi hanno dimostrato di possedere argomenti stimolanti, ma a priori non avviene mai, è quasi impossibile che avvenga, dovrei dargli tempo per questo. Il tempo, senza troppo capire il perché, no lo concedo a nessuno salvo rarissime eccezioni e affinità, come ad esempio, con alcuni colleghi molto giovani, stimati, e anche molto critici verso le banalità. Purtroppo non sono interessato agli argomenti di cui quasi tutti parlano, e soprattutto vivo nel timore che si accorgano di questo. Quando mi parlano, sorrido con sforzo e recito la commedia di chi ascolta, mentre il più delle volte non sento nemmeno quello che mi dicono. Niente è spontaneo nei miei rapporti con gli altri, temo sempre che possano leggermi dentro, intuire quel che penso. Nel mio dentro, i miei pensieri mi spaventano sono brutti e irriverenti, mi passano per la mente giudizi offensivi verso chi mi parla. Molti lo percepiscono e si mettono in guardia, a volte mentre qualcuno mi parla, gli leggo pensieri di disistima, di fastidio. Per fortuna ci sono delle eccezioni, ma meglio non parlarne, le sento talmente preziose da temere che raccontandole possano logorarsi. Nel frattempo imito con grande talento, e con completa realizzazione di me, gli antichi romani che ereditarono dai sabini l'abitudine alla teatralità, alla "messa in scena" in ogni momento della giornata. Erano fantasiosi, per sopravvivere al fastidio altrui, recitavano, "si esibivano" in ogni circostanza, salivano su un "palcoscenico immaginario", usando invadenza e irriverenza come strumenti per sopportare gli altri. Gli toglievano l'iniziativa, gli toglievano spazio, era un modo geniale per proteggersi dalla paura degli altri, anticipandoli, invadendoli, negandogli così ogni genere di comunicazione. E' per questo che romani e sabini rusultano "simpatici", ma stanno sui "maroni" a tutto il resto del mondo. Sopra: un tipico paesaggio sabino
In questo periodo, chi come me era solo in casa, è tornato all'uso del telefono. Addirittura mi è parsa una novità visto che non lo usavo da decenni, né per lavoro (poca fiducia nelle parole), né in privato dove la velocità del messaggi era preferibile. Il comunicare con la sola voce, aggiunto a tutti gli altri modi con o senza webcam, mi ha portato a rivedere il mio concetto di comunicazione, lo ha ampliato, lo ha "istruito" per necessità. Questo isolamento mi ha aggiornato, fatto capire bene, il mio rapporto assurdo con la conversazione, ma anche la sua preziosità. Un momento degno di nota della mia conversazione è nel lavoro dove ho sempre tenuto lontani l'egocentrismo, la promozione di me medesimo, la burla maschilista, gli scambi di bravura alla guida o a letto, che piace tanto ai maschietti modaioli e tutti uguali. Nelle aziende sanno trasformare le normali dialettiche lavorative in teatrini personali che somigliano tanto ai salotti televisivi. Una riunione "tecnica" divenuta all'improvviso un teatrino del narcisimo dove la "star" è di solito l'imprenditore che, approfittando della sua posizione di dominio, narra di gesta eroiche compiute nel weekend o altre circostanze simili, comunica se stesso a scapito delle esigenze lavorative, a caccia di una consacrazione personale di cui non può fare a meno (la moglie e i figli evitano per sopravvivere). Boicottare questi grandi momenti di vita aziendale è stata da sempre la mia specialità, riesco a produrre in un baleno il passaggio repentino di una riunione da salotto godereccio a trincea armata, è qui che da anni produco il numero massimo dei miei nemici. Un altro dei momenti "prestigiosi" della mia conversazione e del produrre nemici, è "discorrere" con una persona gentile che mi stima, ma con cui non sto affatto in confidenza. Un vero supplizio, mi sento dire cose che non interessano minimamente e non riesco a svincolarmi, una specie di "paralisi" della volontà mi impedisce di andarmene, di troncare, e sto zitto per non innescare altri argomenti, ma ogni tanto, per timore che l'interlocutore si accorga del mio disinteresse, dico una parola di approvazione e produco un ulteriore accanimento che prolunga la durata della gogna cerebrale. Alcune volte subisco un discorso o un racconto che nemmeno sento ed ecco che non avendo capito un tubo di quello che mi hanno detto, annuisco come un ebete. Nel tempo sono diventato bravissimo a far credere che ascolto e comprendo, ho acquisito una tale perfezione in questa passività, che azzecco osservazioni senza nemmeno aver compreso l'argomento che si sta trattando. Riesco a fare bella figura anche non volendo. Insomma se voglio dire la verità devo constatare che, in questo periodo di maggiore uso del telefono, mi è più chiaro di come i rapporti con i miei simili li ho sempre vissuti e vivo ancora faticosissimi. Comunicare con loro mi resta difficile a meno che non mi hanno dimostrato di possedere argomenti stimolanti, ma a priori non avviene mai, è quasi impossibile che avvenga, dovrei dargli tempo per questo. Il tempo, senza troppo capire il perché, no lo concedo a nessuno salvo rarissime eccezioni e affinità, come ad esempio, con alcuni colleghi molto giovani, stimati, e anche molto critici verso le banalità. Purtroppo non sono interessato agli argomenti di cui quasi tutti parlano, e soprattutto vivo nel timore che si accorgano di questo. Quando mi parlano, sorrido con sforzo e recito la commedia di chi ascolta, mentre il più delle volte non sento nemmeno quello che mi dicono. Niente è spontaneo nei miei rapporti con gli altri, temo sempre che possano leggermi dentro, intuire quel che penso. Nel mio dentro, i miei pensieri mi spaventano sono brutti e irriverenti, mi passano per la mente giudizi offensivi verso chi mi parla. Molti lo percepiscono e si mettono in guardia, a volte mentre qualcuno mi parla, gli leggo pensieri di disistima, di fastidio. Per fortuna ci sono delle eccezioni, ma meglio non parlarne, le sento talmente preziose da temere che raccontandole possano logorarsi. Nel frattempo imito con grande talento, e con completa realizzazione di me, gli antichi romani che ereditarono dai sabini l'abitudine alla teatralità, alla "messa in scena" in ogni momento della giornata. Erano fantasiosi, per sopravvivere al fastidio altrui, recitavano, "si esibivano" in ogni circostanza, salivano su un "palcoscenico immaginario", usando invadenza e irriverenza come strumenti per sopportare gli altri. Gli toglievano l'iniziativa, gli toglievano spazio, era un modo geniale per proteggersi dalla paura degli altri, anticipandoli, invadendoli, negandogli così ogni genere di comunicazione. E' per questo che romani e sabini rusultano "simpatici", ma stanno sui "maroni" a tutto il resto del mondo. Sopra: un tipico paesaggio sabino