LA FATICA DI NON CREDERE IN UN DIO

LA FATICA DI NON CREDERE IN UN DIO

La fatica di non credere a un dio.
(Dedicato a una credente in difficoltà)

Dostoevskij aveva le idee molto chiare: «Se Dio non esiste tutto è permesso». Questa è la posizione x=y=z= zero, direbbe un informatico, ovvero: ecco il punto di partenza dell’esistenzialismo. Effettivamente tutto è lecito, tutto è permesso se Dio non esiste, e di conseguenza l’uomo è «abbandonato» perché non trova, né in sé né fuori di sé, un punto di riferimento. Quello che fa diventare questa posizione difficile è che l'uomo non ha scuse. Ogni cosa che produce, che fa, né diventa l'unico responsabile, difronte all'alterità e difronte alla sua coscienza. Per il credente invece, se arreca un danno a qualcuno o violenta un bambino, percepisce il dolore che produce, ma dentro di se ha una vocina che dice: "non ho commesso un reato al danneggiato o al violentato, ma contro dio, contro le sue regole". Il dio onnipotente potrà, se mi pento,  anche perdonarmi. Molto comodo. Questa condizione esistenzialista al contrario,  elimina anche il determinismo: non ci sono scuse, l'uomo è libero, l’uomo è libertà. Quelli come me, che negano l'esistenza di dio, non trovano davanti valori o ordini da rispettare devono, verso uomini, donne, animali e cose, produrre un'attenzione in più, avere comportamenti che rispettino gli altri,  che non producano dolore e che gli attribuisca un corretto e paritetico valore. In altre parole dobbiamo cercare continuamente il bene nostro e degli altri, ricerchiamo la buona azione e, se ci "va di culo" su questo,  puntiamo a produrre un miglioramento in noi e in chi ci sta difronte. Tutto semplice sembrerebbe, siamo veri eroi, siamo i migliori? Non è affatto così purtroppo abbiamo grossi inciampi. L'esistenzialista non crede alla neutralità della passione. Mai penserà che una sana e potente passione è un fiume in piena che conduce l'uomo fatalmente a fare degli errori. Ha l'obbligo di controllarsi, non gli piace produrre dolore o essere colpevole verso gli altri. Vive una forte conflittualità nella gestione delle emozioni, le vuole controllare, limitare se occorre, non vuole che diventino una scusa per comportamenti che a posteriori la sua coscienza criticherebbe o condannerebbe. Per questo la vita, per quelli come noi diventa un'avventura faticosa pur se affascinante, creativa, a volte dirompente, siamo uomini condannati ad inventare ogni giorno gli uomini. Ogni volta dobbiamo reinventarci e, come dice Ponge in un articolo recente: <<L'uomo è l'avvenire dell'uomo>>. Molto esatto. Cerchiamo di distinguere però: per un credente, si intende che quell'avvenire è scritto in cielo, che dio lo osserva, che dio ha deciso o decide, e in tal caso non si tratta affatto di "avvenire", se tutto è già stabilito, indicato. Se intendiamo invece, che qualsiasi uomo nasce e cresce sulla terra ha un avvenire da costruirsi, un avvenire da inventare in gran parte, allora siamo noi il nostro "avvenire". Tutto ci attende e a tutto dobbiamo attenzione. In questo caso "siamo abbandonati" a noi stessi, ma sicuramente molti di noi inventeranno comportamenti esemplari, contribuiranno a un futuro più fascinoso, che sarà di esempio ai discendenti, che come bravi "rinascimentali", anche loro cercheranno un miglioramento continuo della condizione umana sul pianeta. Come mai i credenti sono la stragrande maggioranza? Poiché è evidente che la natura umana preferisce l'ubbidienza a qualcuno, come scelta di vita facile, meno impegnativa, meno onerosa: farsi comandare è una posizione rassicurante, non ti costringe a pensare, né a decidere e io comprendo costoro, pur se non condivido.  Essere non credenti e mettere attenzione agli altri è veramente faticoso e anche a rischio di sentirsi persi, abbandonati. La creatività, l'attenzione come arte, la paura e il dubbio sono eccellenti valori umani, e questa sentita umanità mi consola. Sopra: il pianeta terra.