LA MORTE E' ANCHE UN CINEMA CHIUSO
La morte è anche un cinema chiuso.
Un amico di cui mi fido, lo stimo molto per saggezza e saper vivere e lo ascolto attento quando dice: <<I mesi successivi alle elezioni politiche appena svolte, li ho passati ostaggio di Twitter, dei siti di news, dei giornali, di maratone tv, di qualsiasi cosa potesse placare la fame chimica di notizie sulla formazione della nuova governance>>. <<Uno stato da vero tossico, come se l'acqua fosse arrivata ai miei piedi. Pensavo all'incombere del disastro economico, alle morti a raffica, all'espansione virale, ai poveri, ai politici incapaci, alle diseguaglianze, alle zone rosse, alle frontiere chiuse e tanto altro. Un attimo dopo, vedevo che era proprio questo sentirmi assediato, questo senso di tragedia imminente la causa del mio nervosismo>>. Come non dargli ragione. Abbiamo spesso scritto che noi peninsulari siamo assaliti da troppe paure, perché oltre a quelle che dividiamo con tutti gli altri bipedi pensanti del pianeta, aggiungiamo quelle secolari inculcate dal cristianesimo per farci diventare donatori devoti. Se la politica, da decenni si crea consenso da svariate forme di paura, oggi con il Covid 19 da gestire come pericolo quotidiano incombente, siamo messi davvero male. Basta un semplice raffreddore per mettere in crisi noi e tutti quelli che ci avvicinano o che avviciniamo, ed ecco che la nostra vita diventa un mostro con cui combattere giornalmente. Viviamo la morte con un imbarazzante ambito stratificato, perché ci viene facile pensare la vita come fosse una torre di lastre di vetro, dove in ogni attimo si frantuma un elemento in qualsiasi punto estremo o intermedio, è questa l'immagine giusta di quello che ci sta accadendo. Velocemente la catasta si riduce si deforma si avvilisce anche nell'aspetto geometrico, la sua consistenza traballa fino al prodursi di vari cedimenti. Ci sono molte bare, quella del teatro, quella del cinema, quella del sorriso in pubblico, della conoscenza occasionale, della simpatia tra individui, del contraddittorio, della visibilità, della bellezza, della diversità. Ma la morte più pesante è quella della conversazione è quella che più ci avvilisce. Pensate a Socrate che aveva fatto della convivialità un arte e un sistema di vita irrinunciabile, senza esserne troppo coscienti siamo tutti piccoli Socrate e nello stesso tempo piccoli interlocutori di altri pensanti. La conversazione è un ammortizzatore di paure, e se quella in cui ci si gardava negli occhi la sostituiamo con il preziosissimo web, esso è ancora insufficiente, il senso di precarietà, provvisorietà dei concetti e delle affermazioni è forte, esso è ancora un comunicare ridotto. Dobbiamo aumentare i nostri interlocutori, scovarli, renderli partecipi, non importa la distanza, la loro lingua, la loro etnia, visto che i problemi sono in tutte le latitudini. Occorre selezionare. calamitare l'attenzione, occorrono più contenuti che prendano il posto dell'anarchia dei concetti, eludere l'ignoranza presente sui social, e rendere attivi gruppi di pensiero. Questa è la metamorfosi che sta avvenendo lentamente sui social, occorre limitare i "mi piace" senza riflettere a speculatori professionisti, chiamati influencer, che pagando sontuosamente i gestori delle piattaforme diventano fenomeni di interessi assurdi, elefantiaci e dannosi. Occorre evitare che la massa di post terrificante e ambigua non soffochi la buona comunicazione, che rischia di restare invisibile come una goccia nell'oceano. Il tentativo di trasformare il web e farlo diventare una risorsa vera e culturale sembra iniziato ma è ancora lontano a diventare utile. La morte della conversazione la sentiamo sulla nostra pelle. Abbiamo riscoperto il telefono con sorpresa, anche se spesso la disabitudine ci porta ad essere noiosi. Il resto del comunicare sono messaggi veloci che avranno risposte altrettanto veloci quanto inutili o lente che debilitano ogni ragionare. Non facciamo altro che scrivere, comunicare, interagire, eppure nessuna cosa è più cadavere della conversazione su contenuti che ci migliorano. Osserviamo una tavolata al ristorante e vediamo che almeno tre di loro scrivono ad amici non presenti, gli altri ragionano a "raffica di parole", su argomenti indotti, presi da tv o media in genere, è questo l'emergere invadente e fastidioso del saper vivere da "centro commerciale". La pratica di vita che uniforma a scapito della qualità che potrebbe limitare la fragilità umana crescente. Online non esiste ancora conversazione, o qualcosa che possa somigliargli. Tanta gente che amava confrontarsi eccola navigare ma, se i contenuti ci sono, non arrivano a segno per l'ingorgo delle banalità, volutamente postate come sensazionali. Fuori da casa, è oramai il deserto. Si fatica anche a spiegare lavoro con gli altri. In tempi di comunicazione globale, non ci accorgevamo se avevamo davanti persone di qualità o meno, era difficile individuarle, oggi è impossibile, su di noi incombono i profili web, le etichette. Quando un nostro interlocutore fatica a dire i suoi argomenti, si eccita, si toglie la mascherina, si avvicina e, a noi ci viene di scappare non lo ascoltiamo più. Perdiamo molto tempo e tempo non abbiamo, di cosa parliamo a distanza? Seguimi su Fb, su Linkedin, su Twitter, su Pinterest, su Instagram, ma seguiamo cosa? I social sono imbarazzanti ci sembrano gratis, fatti per noi, per distrarci, ma all'era del consumismo se qualcuno ottiene cose gratis, vuol dire che la merce è lui medesimo. Studiano i nostri comportamenti, leggono i nostri sentimenti, e li vendono a chi vuole e sa lucrare su di essi. Se non condiviadiamo una piazza, un giardino, un concerto, un comportamento, una passione, un dialetto, un'abitudine, un tavolo, un salotto, un'idea accomunante, una certezza di capire, diventiamo facilmente "certificatori" di contenuti altrui senza sapere la loro vera consistenza e appartenenza. "Ci piace" "condividi" è proprio in questo momento che dobbiamo dubitare della certezza di quello che stiamo facendo. Esprimere un parere di condivisione senza conoscere bene l'argomento è la nostra morte culturale e della nostra singolarità. La conversazione è davvero morta e giace a fianco della bellezza, ai buoni comportamenti, e a ogni forma di cultura accessibile che ha bisogno del sostegno e della presenza del pubblico. Se non troviamo un vero sistema di riportarla in vita, salvarsi da Covid è impossibile, esso avrà ucciso e continuerà ad uccidere la parte migliore di tutti noi. Sopra: uno dei tanti musei chiusi (foto di Mauro Fagiani)
Un amico di cui mi fido, lo stimo molto per saggezza e saper vivere e lo ascolto attento quando dice: <<I mesi successivi alle elezioni politiche appena svolte, li ho passati ostaggio di Twitter, dei siti di news, dei giornali, di maratone tv, di qualsiasi cosa potesse placare la fame chimica di notizie sulla formazione della nuova governance>>. <<Uno stato da vero tossico, come se l'acqua fosse arrivata ai miei piedi. Pensavo all'incombere del disastro economico, alle morti a raffica, all'espansione virale, ai poveri, ai politici incapaci, alle diseguaglianze, alle zone rosse, alle frontiere chiuse e tanto altro. Un attimo dopo, vedevo che era proprio questo sentirmi assediato, questo senso di tragedia imminente la causa del mio nervosismo>>. Come non dargli ragione. Abbiamo spesso scritto che noi peninsulari siamo assaliti da troppe paure, perché oltre a quelle che dividiamo con tutti gli altri bipedi pensanti del pianeta, aggiungiamo quelle secolari inculcate dal cristianesimo per farci diventare donatori devoti. Se la politica, da decenni si crea consenso da svariate forme di paura, oggi con il Covid 19 da gestire come pericolo quotidiano incombente, siamo messi davvero male. Basta un semplice raffreddore per mettere in crisi noi e tutti quelli che ci avvicinano o che avviciniamo, ed ecco che la nostra vita diventa un mostro con cui combattere giornalmente. Viviamo la morte con un imbarazzante ambito stratificato, perché ci viene facile pensare la vita come fosse una torre di lastre di vetro, dove in ogni attimo si frantuma un elemento in qualsiasi punto estremo o intermedio, è questa l'immagine giusta di quello che ci sta accadendo. Velocemente la catasta si riduce si deforma si avvilisce anche nell'aspetto geometrico, la sua consistenza traballa fino al prodursi di vari cedimenti. Ci sono molte bare, quella del teatro, quella del cinema, quella del sorriso in pubblico, della conoscenza occasionale, della simpatia tra individui, del contraddittorio, della visibilità, della bellezza, della diversità. Ma la morte più pesante è quella della conversazione è quella che più ci avvilisce. Pensate a Socrate che aveva fatto della convivialità un arte e un sistema di vita irrinunciabile, senza esserne troppo coscienti siamo tutti piccoli Socrate e nello stesso tempo piccoli interlocutori di altri pensanti. La conversazione è un ammortizzatore di paure, e se quella in cui ci si gardava negli occhi la sostituiamo con il preziosissimo web, esso è ancora insufficiente, il senso di precarietà, provvisorietà dei concetti e delle affermazioni è forte, esso è ancora un comunicare ridotto. Dobbiamo aumentare i nostri interlocutori, scovarli, renderli partecipi, non importa la distanza, la loro lingua, la loro etnia, visto che i problemi sono in tutte le latitudini. Occorre selezionare. calamitare l'attenzione, occorrono più contenuti che prendano il posto dell'anarchia dei concetti, eludere l'ignoranza presente sui social, e rendere attivi gruppi di pensiero. Questa è la metamorfosi che sta avvenendo lentamente sui social, occorre limitare i "mi piace" senza riflettere a speculatori professionisti, chiamati influencer, che pagando sontuosamente i gestori delle piattaforme diventano fenomeni di interessi assurdi, elefantiaci e dannosi. Occorre evitare che la massa di post terrificante e ambigua non soffochi la buona comunicazione, che rischia di restare invisibile come una goccia nell'oceano. Il tentativo di trasformare il web e farlo diventare una risorsa vera e culturale sembra iniziato ma è ancora lontano a diventare utile. La morte della conversazione la sentiamo sulla nostra pelle. Abbiamo riscoperto il telefono con sorpresa, anche se spesso la disabitudine ci porta ad essere noiosi. Il resto del comunicare sono messaggi veloci che avranno risposte altrettanto veloci quanto inutili o lente che debilitano ogni ragionare. Non facciamo altro che scrivere, comunicare, interagire, eppure nessuna cosa è più cadavere della conversazione su contenuti che ci migliorano. Osserviamo una tavolata al ristorante e vediamo che almeno tre di loro scrivono ad amici non presenti, gli altri ragionano a "raffica di parole", su argomenti indotti, presi da tv o media in genere, è questo l'emergere invadente e fastidioso del saper vivere da "centro commerciale". La pratica di vita che uniforma a scapito della qualità che potrebbe limitare la fragilità umana crescente. Online non esiste ancora conversazione, o qualcosa che possa somigliargli. Tanta gente che amava confrontarsi eccola navigare ma, se i contenuti ci sono, non arrivano a segno per l'ingorgo delle banalità, volutamente postate come sensazionali. Fuori da casa, è oramai il deserto. Si fatica anche a spiegare lavoro con gli altri. In tempi di comunicazione globale, non ci accorgevamo se avevamo davanti persone di qualità o meno, era difficile individuarle, oggi è impossibile, su di noi incombono i profili web, le etichette. Quando un nostro interlocutore fatica a dire i suoi argomenti, si eccita, si toglie la mascherina, si avvicina e, a noi ci viene di scappare non lo ascoltiamo più. Perdiamo molto tempo e tempo non abbiamo, di cosa parliamo a distanza? Seguimi su Fb, su Linkedin, su Twitter, su Pinterest, su Instagram, ma seguiamo cosa? I social sono imbarazzanti ci sembrano gratis, fatti per noi, per distrarci, ma all'era del consumismo se qualcuno ottiene cose gratis, vuol dire che la merce è lui medesimo. Studiano i nostri comportamenti, leggono i nostri sentimenti, e li vendono a chi vuole e sa lucrare su di essi. Se non condiviadiamo una piazza, un giardino, un concerto, un comportamento, una passione, un dialetto, un'abitudine, un tavolo, un salotto, un'idea accomunante, una certezza di capire, diventiamo facilmente "certificatori" di contenuti altrui senza sapere la loro vera consistenza e appartenenza. "Ci piace" "condividi" è proprio in questo momento che dobbiamo dubitare della certezza di quello che stiamo facendo. Esprimere un parere di condivisione senza conoscere bene l'argomento è la nostra morte culturale e della nostra singolarità. La conversazione è davvero morta e giace a fianco della bellezza, ai buoni comportamenti, e a ogni forma di cultura accessibile che ha bisogno del sostegno e della presenza del pubblico. Se non troviamo un vero sistema di riportarla in vita, salvarsi da Covid è impossibile, esso avrà ucciso e continuerà ad uccidere la parte migliore di tutti noi. Sopra: uno dei tanti musei chiusi (foto di Mauro Fagiani)