LE LOGICHE DI POTERE E L'AUTORITARISMO DILAGANTE
Le logiche di potere e l'autoritarismo dilagante.
Quante volte abbiamo sentito parlare di autorità paterna? Per i mei coetanei, nati nel post guerra il confronto con l'autorità paterna era la "battaglia quotidiana". Successivamente tutti abbiamo sentito dire: <<E' finita la cultura contadina e anche il "pater familias" tanto caro agli antichi romani (poteva decidere della vita o morte di mogli e figli), non esiste più. Dopo gli anni delle ribellioni studentesche, piene di violenza reciproca tra genitori e figli, negli anni Ottanta e Novanta tutto si modifica a favore di maggiori libertà per i figli. Per tante ragioni la stabilità della famiglia traballa e arriviamo al 2011 quando Massimo Recalcati nel suo libro "Cosa resta del padre", sancisce la definitiva morte dell'autorità paterna, intesa come figura secolare tornata di gran moda nel ventennio fascista e restata un "esempio da seguire" nel post fascismo, e l'avvento di una nuova incertissima autorità genitoriale fatta di buon esempio e autorevolezza. Fare il bravo "padre-padrone" ereditando (con o senza meriti) un ruolo che la cultura di riferimento ti assegna è cosa assai più facile che dover essere "buon padre" per meriti, che vuole dire avere un carisma sufficiente e "dare l'esempio", "essere di esempio" per il buon crescere del figlio. Fin qui abbiamo semplificato più possibile un concetto, una logica di potere, che occorre invece riportare in ambiti più ampi. Quando assistiamo, come in questi ultimi decenni, a una vera crisi del principio di autorità, ad essa non corrisponde affatto una messa in discussione dell'autoritarismo. Anzi possiamo affermare, senza ombra di dubbio che essa lo alimenta, lo sostiene. Una società in cui i meccanismi di autorità sono indeboliti, è lontanissima dall’accedere a un’epoca di libertà, entra in un periodo di arbitrarietà e di confusione. La società odierna, infatti, oscilla costantemente tra due tentazioni, quella di vessare pesantemente gli individui, e quella di sedurli, affascinarli con modelli di tipo commerciale. Il grande elemento assente è lo scopo, il fine. Ad esempio gli insegnanti cercano di ottenere l'attenzione degli allievi mediante astuzie e tecniche di seduzione. Se dicessero: <<mi devi ascoltare peché sono il tuo insegnante>> avrebbero pernacchie certe come "ritorno". Se un padre dicesse: <<fai questa cosa perché la dico e pretendo io>>, povero, susciterebbe giuste ire profonde. Non si può avere il rispetto dei giovani se non sappiamo indicare loro il motivo-scopo del nostro rapporto gerarchico. Un altro esempio è lo Stato e il cittadino. Quest'ultimo ubbidisce a un decreto legge che né limita le libertà perché quel decreto gli impone "ubbidienza e scopo", ovvero: ti punisco se non rispetti le regole, perché queste regole proteggono te e tutti coloro che incontri. Il provvedimento, pur se ritenuto necessario in quanto aveva l'obiettivo di limitare i contagi, è diventato un vero e insolente atto autoritario per aver scelto la repressione anziché disciplina e informazione sul corretto uso del decreto. Da un'altra parte nel nome della presunta libertà individuale, l’allievo o il figlio assumono il ruolo di clienti che accettano o rifiutano ciò che “l’adulto-venditore” propone loro, né il professore, né il genitore sono in grado di indicare, lo scopo, un'espansione del se, una "bellezza" da raggiungere. Questo è un autoritarismo gerarchico per impotenza. Perché impotenza? Perché oggi non siamo in grado di garantire un futuro ai giovani, né possiamo immaginarlo a breve per noi. Il futuro non offre nessuna garanzia, non ci sono scopi da raggiungere per cui ubbidire diventa ridicolo e le logiche di potere infamanti. In ogni rapporto tra individui, non basta dire io sono, io faccio, io sono migliore, ma se poniamo un buon fine, uno scopo di qualità, un obiettivo di vita affascinante, una bellezza da conquistare, ecco giustificata l'accettazione di un rapporto gerarchico, senza che esso metta in crisi la relazione. Non esiste autoritarismo quando abbiamo un "qualcosa" di importante da conquistare insieme, un invito ad essere qualcos'altro, per il raggiungimento di uno scopo. Non esiste tirannia se abbattiamo il narcisimo, e qualsiasi fine egoistico, se entriamo in una dialettica nuova, in un campo fantasioso dove tutto è possibile. "Io sono" diventa io sarò, "io faccio" diventa io potrò fare e chi entra in questo "divenire", in un miglioramento possibile, vede scomparire i ruoli: lo studente segue in professore, il figlio segue il genitore, un sottoposto la sua titolare, una fidanzata il fidanzato, un marito la moglie, la cagna il cane, il votante il votato, il rapporto gerarchico resta ma "di utilità", perché associativo, perché partecipativo, perché rende più forti e aumenta le possibilita di conseguire un miglioramento o un successo.
Quante volte abbiamo sentito parlare di autorità paterna? Per i mei coetanei, nati nel post guerra il confronto con l'autorità paterna era la "battaglia quotidiana". Successivamente tutti abbiamo sentito dire: <<E' finita la cultura contadina e anche il "pater familias" tanto caro agli antichi romani (poteva decidere della vita o morte di mogli e figli), non esiste più. Dopo gli anni delle ribellioni studentesche, piene di violenza reciproca tra genitori e figli, negli anni Ottanta e Novanta tutto si modifica a favore di maggiori libertà per i figli. Per tante ragioni la stabilità della famiglia traballa e arriviamo al 2011 quando Massimo Recalcati nel suo libro "Cosa resta del padre", sancisce la definitiva morte dell'autorità paterna, intesa come figura secolare tornata di gran moda nel ventennio fascista e restata un "esempio da seguire" nel post fascismo, e l'avvento di una nuova incertissima autorità genitoriale fatta di buon esempio e autorevolezza. Fare il bravo "padre-padrone" ereditando (con o senza meriti) un ruolo che la cultura di riferimento ti assegna è cosa assai più facile che dover essere "buon padre" per meriti, che vuole dire avere un carisma sufficiente e "dare l'esempio", "essere di esempio" per il buon crescere del figlio. Fin qui abbiamo semplificato più possibile un concetto, una logica di potere, che occorre invece riportare in ambiti più ampi. Quando assistiamo, come in questi ultimi decenni, a una vera crisi del principio di autorità, ad essa non corrisponde affatto una messa in discussione dell'autoritarismo. Anzi possiamo affermare, senza ombra di dubbio che essa lo alimenta, lo sostiene. Una società in cui i meccanismi di autorità sono indeboliti, è lontanissima dall’accedere a un’epoca di libertà, entra in un periodo di arbitrarietà e di confusione. La società odierna, infatti, oscilla costantemente tra due tentazioni, quella di vessare pesantemente gli individui, e quella di sedurli, affascinarli con modelli di tipo commerciale. Il grande elemento assente è lo scopo, il fine. Ad esempio gli insegnanti cercano di ottenere l'attenzione degli allievi mediante astuzie e tecniche di seduzione. Se dicessero: <<mi devi ascoltare peché sono il tuo insegnante>> avrebbero pernacchie certe come "ritorno". Se un padre dicesse: <<fai questa cosa perché la dico e pretendo io>>, povero, susciterebbe giuste ire profonde. Non si può avere il rispetto dei giovani se non sappiamo indicare loro il motivo-scopo del nostro rapporto gerarchico. Un altro esempio è lo Stato e il cittadino. Quest'ultimo ubbidisce a un decreto legge che né limita le libertà perché quel decreto gli impone "ubbidienza e scopo", ovvero: ti punisco se non rispetti le regole, perché queste regole proteggono te e tutti coloro che incontri. Il provvedimento, pur se ritenuto necessario in quanto aveva l'obiettivo di limitare i contagi, è diventato un vero e insolente atto autoritario per aver scelto la repressione anziché disciplina e informazione sul corretto uso del decreto. Da un'altra parte nel nome della presunta libertà individuale, l’allievo o il figlio assumono il ruolo di clienti che accettano o rifiutano ciò che “l’adulto-venditore” propone loro, né il professore, né il genitore sono in grado di indicare, lo scopo, un'espansione del se, una "bellezza" da raggiungere. Questo è un autoritarismo gerarchico per impotenza. Perché impotenza? Perché oggi non siamo in grado di garantire un futuro ai giovani, né possiamo immaginarlo a breve per noi. Il futuro non offre nessuna garanzia, non ci sono scopi da raggiungere per cui ubbidire diventa ridicolo e le logiche di potere infamanti. In ogni rapporto tra individui, non basta dire io sono, io faccio, io sono migliore, ma se poniamo un buon fine, uno scopo di qualità, un obiettivo di vita affascinante, una bellezza da conquistare, ecco giustificata l'accettazione di un rapporto gerarchico, senza che esso metta in crisi la relazione. Non esiste autoritarismo quando abbiamo un "qualcosa" di importante da conquistare insieme, un invito ad essere qualcos'altro, per il raggiungimento di uno scopo. Non esiste tirannia se abbattiamo il narcisimo, e qualsiasi fine egoistico, se entriamo in una dialettica nuova, in un campo fantasioso dove tutto è possibile. "Io sono" diventa io sarò, "io faccio" diventa io potrò fare e chi entra in questo "divenire", in un miglioramento possibile, vede scomparire i ruoli: lo studente segue in professore, il figlio segue il genitore, un sottoposto la sua titolare, una fidanzata il fidanzato, un marito la moglie, la cagna il cane, il votante il votato, il rapporto gerarchico resta ma "di utilità", perché associativo, perché partecipativo, perché rende più forti e aumenta le possibilita di conseguire un miglioramento o un successo.