L''UOMO CALPESTANTE
L'uomo calpestante.
La morte di un uomo in un incidente stradale è uguale a quella di una formica calpestata da un asino. Sono due avvenimenti simili nel corso delle cose della natura, in assoluto insignificanti, dato il numero di uomini e di formiche che vivono la terra. L'uomo, mi viene di definirlo come un elemento della natura che si "eleva" da essa per calpestarla ed è dotato di un sistema sofisticato che produce pensiero e riesce a comunicarlo attraverso la parola. Deve essere stata colpa di una tempesta virale se l'uomo e il cane, che hanno percorso fianco a fianco migliaia di anni, hanno vissuto un processo biologico insieme, oggi uno parla e l'altro abbaia. Se osserviamo l'agitarsi umano in montagna, sulle spiagge, nelle campagne, nelle città super affollate, vediamo come esso è un "calpestante" che crea problemi ovunque e la natura per sopportarlo lo ignora, lo lascia fare. Ci sono poi due generi di umani, alcuni più rumorosi e irrequieti che sono insopportabili anche dai suoi simili più educati, silenziosi e meno invadenti. Per darvi un'idea di quanto essi siano diversi, pensate a un bancone lungo 4 metri di un bar, a Zurigo riescono a prendere il caffé comodamente sei clienti a Roma invece solo tre. Perchè in un bar romano occore fare i conti con personaggi, discendenti di Caligola e Nerone, in perenne ricerca di un palcoscenico e una platea dove esibire la loro natura pittoresca e, quindi, per prendere un caffé si appoggiano con tutto il corpo sul bancone e sgambettano narrando istrionici accaduti e di conseguenza occupano uno spazio doppio. Il gestore deve prendere atto che è così e basta, non può farci niente. Ecco la natura è come il barista romano sopporta tutto, ma non tollera sempre, ogni tanto si ribella contro gli umani più fastidiosi provocando, aiutata dalla loro stupidità, sciagure su sciagure. <<Maestro di sci travolto da una valanga>>, <<Turisti abbandonati nel deserto senza acqua>>, <<Gruppo di scout sommersi dal torrente>>, <<Cavaliere del lavoro morso dal suo pitbull nel giardino>>, ecc. Ecco, quando leggiamo queste notizie tutti addolorati, imprechiamo contro "il cataclisma", contro la tragedia fatale, contro il destino, mai ci soffermiamo a pensare che è semplicemente colpa degli umani imbecilli. Perché tutti noi, anche quelli meno invadenti, quando si tratta di sciagure evitabilissime tendiamo al melodramma ovvero, meglio piangere la tragedia altrui come inevitabile, che pensare seriamente alla nostra inadeguadezza e alla nostra irresponsabilità. Mi piace "immergermi" nella neve, nell'acqua, nell'erba e mi dimentico che quel piacere lo devo proteggere, conservare, migliorare se ne ho occasione. Locke, nel 1654, nel suo discorso a difesa della proprietà privata dice esattamente: <<Ho diritto che questo terreno sia mio se lo terrò bene, se lo coltivo, se lo miglioro e se i frutti che ivi produco avanzano ho l'obbligo morale di metterli a disposizione degli altri>> Capito? Calpestare senza rispetto e senza "conoscenza" e senza creare valore un suolo è la tragedia della natura. L'uomo, quello meno chiassoso, per disonesta comodità pone centrale il tema della "vittima" (l'uomo), e carnefice (la natura) e cerca di convincersi che sta nel ruolo degli inermi, di essere schiacciato da un sistema complesso che non lo riguarda direttamente, e si convince facile di questa assurdità. L'uomo calpesta quando è attivo, ed è assolutamente indifferente alla natura anche quando è statico. Ci isoliamo da tutto perché viviamo troppo tempo "chiusi in noi stessi", senza comunicare. Pensate, se parliamo un'ora al giorno e ne dormiamo otto, ci restano 15 ore che dedichiamo al silenzio. In tutto questo tempo ne combiniamo di cotte e di crude: prendiamo decisioni, pensiamo, facciamo anche cose di cui neanche ci accorgiamo. Custodiamo le paure, teniamo a freno l'ira, fantastichiamo, giudichiamo, ci lasciamo turbare, controlliamo le emozioni o le cerchiamo, siamo scontenti o contenti, rimuoviamo le angosce, metabolizziamo le cattive notizie, ci accettiamo, ci rifiutiamo, ecc. Dentro il silenzio ritorniamo infantili, ritroviamo il gioco, ci confessiamo l'inconfessabile, preghiamo se crediamo, non ci vergognamo dei nostri impulsi, uccidiamo i tabù, desideriamo ciò che gli altri ci vietano, ci vien voglia di uccidere, di fare all'amore, di scappare. Anche in queso caso, in questo completo isolamento, siamo estranei alla natura, vogliamo metter distanza, è il nostro tentativo estremo di evitare il confronto e soprattutto il giudizio degli altri. Su queste pagine abbiamo spesso puntato il dito contro il capitalismo distruttivo, ma dobbiamo sempre più osservare come esso ci "trascina" e si alimenta proprio della nostra natura calpestante. Quindi calpestiamo noi stessi e diamo la colpa sempre agli altri.
La morte di un uomo in un incidente stradale è uguale a quella di una formica calpestata da un asino. Sono due avvenimenti simili nel corso delle cose della natura, in assoluto insignificanti, dato il numero di uomini e di formiche che vivono la terra. L'uomo, mi viene di definirlo come un elemento della natura che si "eleva" da essa per calpestarla ed è dotato di un sistema sofisticato che produce pensiero e riesce a comunicarlo attraverso la parola. Deve essere stata colpa di una tempesta virale se l'uomo e il cane, che hanno percorso fianco a fianco migliaia di anni, hanno vissuto un processo biologico insieme, oggi uno parla e l'altro abbaia. Se osserviamo l'agitarsi umano in montagna, sulle spiagge, nelle campagne, nelle città super affollate, vediamo come esso è un "calpestante" che crea problemi ovunque e la natura per sopportarlo lo ignora, lo lascia fare. Ci sono poi due generi di umani, alcuni più rumorosi e irrequieti che sono insopportabili anche dai suoi simili più educati, silenziosi e meno invadenti. Per darvi un'idea di quanto essi siano diversi, pensate a un bancone lungo 4 metri di un bar, a Zurigo riescono a prendere il caffé comodamente sei clienti a Roma invece solo tre. Perchè in un bar romano occore fare i conti con personaggi, discendenti di Caligola e Nerone, in perenne ricerca di un palcoscenico e una platea dove esibire la loro natura pittoresca e, quindi, per prendere un caffé si appoggiano con tutto il corpo sul bancone e sgambettano narrando istrionici accaduti e di conseguenza occupano uno spazio doppio. Il gestore deve prendere atto che è così e basta, non può farci niente. Ecco la natura è come il barista romano sopporta tutto, ma non tollera sempre, ogni tanto si ribella contro gli umani più fastidiosi provocando, aiutata dalla loro stupidità, sciagure su sciagure. <<Maestro di sci travolto da una valanga>>, <<Turisti abbandonati nel deserto senza acqua>>, <<Gruppo di scout sommersi dal torrente>>, <<Cavaliere del lavoro morso dal suo pitbull nel giardino>>, ecc. Ecco, quando leggiamo queste notizie tutti addolorati, imprechiamo contro "il cataclisma", contro la tragedia fatale, contro il destino, mai ci soffermiamo a pensare che è semplicemente colpa degli umani imbecilli. Perché tutti noi, anche quelli meno invadenti, quando si tratta di sciagure evitabilissime tendiamo al melodramma ovvero, meglio piangere la tragedia altrui come inevitabile, che pensare seriamente alla nostra inadeguadezza e alla nostra irresponsabilità. Mi piace "immergermi" nella neve, nell'acqua, nell'erba e mi dimentico che quel piacere lo devo proteggere, conservare, migliorare se ne ho occasione. Locke, nel 1654, nel suo discorso a difesa della proprietà privata dice esattamente: <<Ho diritto che questo terreno sia mio se lo terrò bene, se lo coltivo, se lo miglioro e se i frutti che ivi produco avanzano ho l'obbligo morale di metterli a disposizione degli altri>> Capito? Calpestare senza rispetto e senza "conoscenza" e senza creare valore un suolo è la tragedia della natura. L'uomo, quello meno chiassoso, per disonesta comodità pone centrale il tema della "vittima" (l'uomo), e carnefice (la natura) e cerca di convincersi che sta nel ruolo degli inermi, di essere schiacciato da un sistema complesso che non lo riguarda direttamente, e si convince facile di questa assurdità. L'uomo calpesta quando è attivo, ed è assolutamente indifferente alla natura anche quando è statico. Ci isoliamo da tutto perché viviamo troppo tempo "chiusi in noi stessi", senza comunicare. Pensate, se parliamo un'ora al giorno e ne dormiamo otto, ci restano 15 ore che dedichiamo al silenzio. In tutto questo tempo ne combiniamo di cotte e di crude: prendiamo decisioni, pensiamo, facciamo anche cose di cui neanche ci accorgiamo. Custodiamo le paure, teniamo a freno l'ira, fantastichiamo, giudichiamo, ci lasciamo turbare, controlliamo le emozioni o le cerchiamo, siamo scontenti o contenti, rimuoviamo le angosce, metabolizziamo le cattive notizie, ci accettiamo, ci rifiutiamo, ecc. Dentro il silenzio ritorniamo infantili, ritroviamo il gioco, ci confessiamo l'inconfessabile, preghiamo se crediamo, non ci vergognamo dei nostri impulsi, uccidiamo i tabù, desideriamo ciò che gli altri ci vietano, ci vien voglia di uccidere, di fare all'amore, di scappare. Anche in queso caso, in questo completo isolamento, siamo estranei alla natura, vogliamo metter distanza, è il nostro tentativo estremo di evitare il confronto e soprattutto il giudizio degli altri. Su queste pagine abbiamo spesso puntato il dito contro il capitalismo distruttivo, ma dobbiamo sempre più osservare come esso ci "trascina" e si alimenta proprio della nostra natura calpestante. Quindi calpestiamo noi stessi e diamo la colpa sempre agli altri.