PENSIERI RAPIDI: La nostra Italia
PENSIERI RAPIDI: La nostra Italia
Il nostro paese non ha più nulla dirci e nemmeno io ho più niente da dirgli. Tra me e l'architettura di queste città, chiese, palazzi, piazze, che vogliono una vita calma, meditata sull'idolatria o sulla rinuncia del piacere, non c'è più una questione aperta. Fino agli inizi degli anni Duemila pensavamo che una mano di modernità, uno sforzo di adattamento, avrebbero reso le nostre città adatte ai tempi, poi ci siamo arresi. Il persistere della marea delle auto, l'irrompere dei Suv, dei turisti, dei monopattini, dei cani, dei finti ciclisti, hanno talmente limitato gli spazi che camminare rilassati è davvero impossibile. Non possiamo certamente rifiutare la nostra condizione umana, ma il luogo dove poterla accettare non è certamente la vita di città. Difficile corromperci in un ambiente che non esprime più la gloria del passato, ma soltanto l'accettazione sofferta di una commedia moderna. L'atto principale di questa commedia è l'accoglienza al turista. In questo atto la città è animata da tribù di servi dei visitatori, cuochi, camerieri, inservienti in genere, parrucchieri, faccendieri, mendicanti, saltimbanchi, cantanti da strada, teatranti, colma di mercanti invasori organizzati. Visitatori e custodi di sorreggono in una finta e mal tollerata reciproca accettazione. Chi mi ha conosciuto è restato sorpreso che non visito chiese, templi, musei, monumenti, o grandi opere, è normale che io preferisca altri orizzonti oltre lo sfarzo del nostro passato. Ci sono altri cieli pieni di stelle meno falsamente illuminati, ma molto intimi, molto nostri. Trovare sotto questi cieli la forza per andare avanti rifiutando il cinismo che le vecchie pietre ci hanno insegnato, non avendo altro da proporci se non la loro presenza invadente. Noi, da esse, abbiamo appreso soltanto la sopportazione.
Il nostro paese non ha più nulla dirci e nemmeno io ho più niente da dirgli. Tra me e l'architettura di queste città, chiese, palazzi, piazze, che vogliono una vita calma, meditata sull'idolatria o sulla rinuncia del piacere, non c'è più una questione aperta. Fino agli inizi degli anni Duemila pensavamo che una mano di modernità, uno sforzo di adattamento, avrebbero reso le nostre città adatte ai tempi, poi ci siamo arresi. Il persistere della marea delle auto, l'irrompere dei Suv, dei turisti, dei monopattini, dei cani, dei finti ciclisti, hanno talmente limitato gli spazi che camminare rilassati è davvero impossibile. Non possiamo certamente rifiutare la nostra condizione umana, ma il luogo dove poterla accettare non è certamente la vita di città. Difficile corromperci in un ambiente che non esprime più la gloria del passato, ma soltanto l'accettazione sofferta di una commedia moderna. L'atto principale di questa commedia è l'accoglienza al turista. In questo atto la città è animata da tribù di servi dei visitatori, cuochi, camerieri, inservienti in genere, parrucchieri, faccendieri, mendicanti, saltimbanchi, cantanti da strada, teatranti, colma di mercanti invasori organizzati. Visitatori e custodi di sorreggono in una finta e mal tollerata reciproca accettazione. Chi mi ha conosciuto è restato sorpreso che non visito chiese, templi, musei, monumenti, o grandi opere, è normale che io preferisca altri orizzonti oltre lo sfarzo del nostro passato. Ci sono altri cieli pieni di stelle meno falsamente illuminati, ma molto intimi, molto nostri. Trovare sotto questi cieli la forza per andare avanti rifiutando il cinismo che le vecchie pietre ci hanno insegnato, non avendo altro da proporci se non la loro presenza invadente. Noi, da esse, abbiamo appreso soltanto la sopportazione.